RSA: chiamiamola strage
Siamo una Regione in cui oltre il 25% della popolazione è anziana e, degli oltre 943mila concittadini anziani, il 16% (circa 151mila) vive da solo. Sono 114 mila gli anziani non autosufficienti e di questi quasi 15 mila sono ospiti nelle 322 Residenze Sanitarie Assistenziali (di cui 42 gestite dal servizio sanitario regionale e le restanti 280 a gestione privata) presenti sul territorio regionale, ed è proprio in questi luoghi che sono deceduti circa un quarto dei morti da Covid-19 in Toscana.
I dati ancora scontano un’ufficialità che non c’è, per cui è difficile fissare un numero esatto delle vittime. L’ultimo resoconto disponibile è un’inchiesta del Corriere fiorentino dello scorso 25 aprile che conteggiava 189 morti. I 115 decessi nelle RSA, dei 339 complessivi registrati alla data del 24 aprile nelle province di Firenze, Prato e Pistoia (ASL Toscana Centro), rappresentano il 33% del totale nell’azienda sanitaria Toscana Centro. Sempre di metà aprile; sono 63 i decessi denunciati dall’AUSL Nord Ovest. Lungo è l’elenco delle RSA toscane che contano vittime da Covid-19. Diversi gli esposti delle famiglie alla magistratura che, a sua volta, ha aperto, a oggi, indagini presso le procure di Arezzo, Firenze, Lucca e Prato.
Numeri che non rispecchiano la vera dimensione della tragedia che si è consumata in queste strutture. Anche se nessuno potrà dimostrarlo, perché non sono stati eseguiti le necessarie indagini molecolari, i morti per Covid-19 potrebbero essere un numero molto più consistente, impressionante nelle Regioni del Nord, epicentro della pandemia, se consideriamo le dichiarazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha calcolato come il 50% dei morti si sia registrato proprio nelle residenze sociosanitarie.
Secondo uno studio fornito dall’Istituto Superiore di Sanità, emerge che le morti che sono, o potrebbero essere, legate alla pandemia rappresentano il 40% del totale dei decessi avvenuti, tra il primo febbraio e 17 aprile, in circa mille Residenze Sanitarie Assistenziali italiane prese in esame, di cui 60 toscane. In quel periodo sono state registrate, in tutto, 6.773 morti, delle quali 2.724 causate direttamente dal Covid (364) o da sintomi simil influenzali (2.360) attribuibili al coronavirus, anche se alle persone decedute non era stato fatto il tampone. Mancano dunque all’appello centinaia se non migliaia di anziani.
Ai numeri segue, in una triste abitudine che in questo caso risulta essere ancora più esecrabile, il rimpallo delle responsabilità, nel caso specifico tra la Regione Toscana, da una parte e i gestori privati, dall’altra. I secondi accusano la prima dei ritardi nell’approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale per ospiti e operatori (dispositivi che una volta ottenuti si sono rivelati carenti e non congrui) e nell’effettuazione dei test sierologici. La Regione accusa il privato di un vero e proprio fallimento nella gestione del contagio del virus.
Non vi è dubbio che le Residenze Sanitarie Assistenziali dovevano essere immediatamente poste in sicurezza, anche in considerazione dell’importante carico sanitario di queste strutture, in cui gli ospiti sempre più presentano patologie croniche importanti.
Era prevedibile che la presenza di persone per antonomasia vulnerabili, visto tra l’altro che la media di letalità ha riguardato maggiormente la popolazione anziana e con pluripatologie, ne facessero luoghi ad alto rischio. Luoghi istituzionalizzanti, con spazi relativamente chiusi, in cui già si sapeva della difficoltà di una gestione di eventuali focolai di Covid -19, cosa puntualmente successa.
Andavano immediatamente monitorate, attivati gli opportuni controlli, e non era sufficiente sperare di cavarsela con l’invio di circolari, o l’emanazione di ordinanze, ma si rendeva necessaria un’immediata presa in carico, da parte del servizio sanitario regionale, degli ospiti infettati, commissariando immediatamente quelle strutture che non erano in grado di curarli e proteggerli. Troppo tardivi, infatti, i 39 commissariamenti aziendali, di cui 23 nella sola Toscana Centro.
Dall’altra parte, quando non si sono rincorse logiche che hanno spinto i gestori a nascondere ciò che stava accadendo, come minimo si è sottovalutato e perso tempo prezioso, cosa che ha fatto la differenza negli esiti, purtroppo anche letali, per gli ospiti, e nei casi di contagio tra gli operatori. Il gestore privato si è rivelato, tranne alcuni casi virtuosi, altrettanto “colpevole” e comunque ha complessivamente dimostrato tutta la sua insufficienza e inadeguatezza.
Per quanto ci riguarda, quello che non ha retto è il modello che questa Regione si è dato esternalizzando quasi completamente questo settore dell’assistenza sociosanitaria residenziale e lo ha fatto attraverso parametri di accreditamento inadeguati rispetto a quella che oggi è il target delle persone anziane ospiti di queste strutture. Un modello che va radicalmente rivisto.
Siamo convinti che un primo radicale cambiamento debba riguardare le politiche pubbliche sulla prevenzione e sull’organizzazione delle cure primarie territoriali, con la riqualificazione dei servizi territoriali, compreso quelli rivolti alla popolazione anziana (in particolare a quel 16% di popolazione anziana sola) e alla popolazione anziana non autosufficiente. Da tempi non sospetti proponiamo al posto dell’istituzionalizzazione in strutture -sempre più dimensionate su grandi numeri di ospiti presenti, scarso personale poco remunerato e tutelato nei diritti, depauperamento delle necessarie figure professionali- un potenziamento dell’assistenza domiciliare integrata, anche con forme di vera e propria “ospedalizzazione” domiciliare, con le dovute risorse umane e i dovuti finanziamenti e il ricorso alle innovazioni che la moderna medicina mette in campo.
L’istituzionalizzazione deve essere davvero l’ultima ratio in strutture costituite da piccoli moduli, presentare un tasso di sanitarizzazione sempre più alto, una revisione profonda dell’accreditamento nei parametri quanti qualitativi ma, soprattutto, non si può più rimandare il tema della loro ripubblicizzazione.
Questa tristissima vicenda ha avuto la capacità di operare nel senso comune generale, una profonda rottura della retorica della bontà del privato, della sua efficienza, e ha dimostrato al contrario come il privato segue un’unica regola che è quella del profitto. Questa nuovo sentimento che ci ha fatto riscoprire un servizio pubblico che fa la differenza perché si fa carico, nella sua universalità, di tutti senza scegliere tra la vita e la morte di chi se lo può permettere e chi no, non bisogna disperderlo.
In questi drammatici mesi ci siamo ripetuti che nulla dovrà essere come prima. Che la lezione impartita da questa tragica emergenza sanitaria doveva esserci di monito rispetto al passato ma soprattutto riguardo al futuro. Che non ci saremmo potuti più permettere di fare strame di un servizio sanitario pubblico che da oltre, in questi anni, a un continuo de finanziamento ha subito un poderoso processo di privatizzazione. Che non siamo più nel tempo della sua difesa, ma di un suo rilancio con conseguente coerenza di scelte. Addirittura che abbiamo di fronte a noi l’opportunità di un nuovo modello sociale ed economico.
Siamo di fronte a quest’opportunità che il Covid-19 paradossalmente ci ha offerto, ma dobbiamo essere i primi a crederci e avere il coraggio delle nostre idee. Perché i segnali che già, ahinoi, si affacciano, e nemmeno tanto all’orizzonte, sono quelli gattopardeschi del tutto cambia perché tutto rimanga uguale, con qualche furbesco aggiustamento di facciata, per presto presentarci, temo, un conto più salato di prima.