Parlare di guerra è improprio ma utile per la Fase2
Non siamo in guerra, ma è intenso il dibattito sul dopoguerra. Le metafore sulle pandemie come guerre sono state usate ricorrentemente. In molti, anche su questo giornale, ce ne hanno illustrato sia le ragioni che i pericoli. L’Europa che nel corso del XX secolo ha vissuto le «pandemie» belliche del 1914-18, e del 1939-45, deve avere ben chiaro il senso delle proporzioni.
Eppure pensare in termini di dopoguerra ha una sua giustificazione: significa porsi il problema del mutamento delle forme dei vari capitalismi, e, più in profondità, del meccanismo fondamentale di funzionamento del capitalismo dopo una crisi grave e sistemica. Una crisi cui i pesantissimi effetti di un evento esogeno si sono aggiunti a quelli provocati dai modi tramite i quali si è risposto, o meglio non risposto, alle ragioni profonde della crisi iniziata nel 2008 e mai davvero superata.
«Tutto cambierà nel mondo della finanza», nell’epicentro di diffusione della crisi, si disse allora, cioè ieri. Ed invece tutto è stato fatto proprio perché non cambiasse nulla, ed oggi i fenomeni indicati allora come patologie, si sono addirittura rafforzati. Aumentata la pratica di riacquisto delle azioni; senza interruzione o minimo ripensamento, anzi incrementata, quella della distribuzione dei dividendi; ampliata l’area della finanza occulta. «I toni crudi della vita» si sono imposti sul «sogno di una vita più bella», per dirla con Johan Huizinga. Dall’esperienza della pandemia che stiamo vivendo «un bisogno enorme di uguaglianza è emerso chiaramente», afferma la filosofa Roberta De Monticelli. Ora è difficile una valutazione quantitativa dell’«enorme», ma soprattutto è difficile ipotizzare il peso di uno stato d’animo, sia pure generalizzato, sui processi di trasformazione degli equilibri complessivi (economico-sociali e politici) determinanti il momento attuale. «Tutto dipende dall’ambiente storico in cui si trova collocato, quel groviglio di possibili che caratterizza il nostro presente. È lì, secondo una delle più feconde lezioni marxiane, che va condotta l’analisi per tentare di individuare quali lineamenti di quel groviglio abbiano reale possibilità di svolgimento nel prossimo futuro. È lì che le buone ipotesi desideranti vanno messe alla prova dei contesti di realtà.
Esemplare, a proposito la vicenda del primo dopoguerra del Novecento. Per quel che riguardava l’Italia il sentimento generalizzato del «nulla sarà come prima» veniva pensato nei termini di una «ricostruzione» del paese o per via riformatrice o per via rivoluzionaria.
Rifare l’Italia è, appunto, il titolo del discorso, di grande spessore culturale politico, pronunciato alla Camera nel giugno 1920 da Filippo Turati. Al progetto di «riformismo rivoluzionario», come Turati lo aveva sempre definito, venivano chiamate a collaborare «forze borghesi elementi borghesi», nell’interesse comune alla ricostruzione di un’Italia radicalmente diversa da quella precedente la guerra. Ma l’«ambiente storico» era quello che emerge bene da una testimonianza riportata da Emilio Lussu nel suo Marcia su Roma e dintorni. «Siamo riusciti a stroncarli – dice il figlio di un agrario, giovane squadrista che era stato sottotenente agli ordini del capitano Lussu durante la guerra. «È finita la cuccagna. Pensi che ogni contadino guadagnava persino quaranta lire al giorno. – E adesso? – Quattordici lire. E sono anche troppe». Il percorso per Ricostruire l’Italia, dunque, non poteva che incrociare l’altro percorso, quello che, nelle forme dei diversi contesti storici, garantisce le condizioni migliori per la valorizzazione del capitale. Ecco, questo è il centro permanente del groviglio di possibili connesso ai modi di svolgimento, e di scioglimento, di una crisi sistemica quale quella che stiamo vivendo.
Possiamo davvero pensare che l’uscita da una crisi del genere, prodotta in origine proprio dalle difficoltà di garantire l’accumulazione anche tramite l’ipertrofia del capitale finanziario, esplosa poi per l’irruzione di un evento inatteso, possa non riproporre la stessa logica delle grandi crisi precedenti? Possiamo davvero pensare che uno degli effetti principali della crisi sia la fine del neoliberismo? Come se il neoliberismo fosse principalmente un’ideologia e non un campo di forze istituzionali, di organizzazione culturale, di continua e pervicace iniziativa politica. Senza la costruzione di un altro campo di forze opposto che abbia la medesima articolazione, i buoni desideri, i buoni sentimenti sono destinati a rimanere tali.
Sul piano culturale, seppure in maniera non particolarmente organica, il lavoro procede da tempo. Non c’è però una risposta politica della sinistra che ne tenga conto. «Se una sinistra almeno esistesse», ha constatato, con forte senso della realtà, il condirettore di questo giornale.
*Questo articolo è apparso su “Il Manifesto” il 7 maggio 2020