Pandemia: intervista allo specchio
GIORNALISTA: Lei è un vecchio militante comunista, come ha vissuto questa esperienza della pandemia di coronavirus?
MILITANTE: Sono vecchio ma non tanto da aver vissuto il disastro della guerra e questa è stata la prima volta in cui quelli della mia generazione ed a maggior ragione quelli più giovani di me, hanno visto messe in discussione le certezze quotidiane a cui eravamo tutti abituati. Il diritto ad uscire di casa, di riunirsi, di incontrarsi, l’idea che se eri malato ti ricoveravano e ti curavano.
Non ho paura di morire, ma sentire di essere un candidato ideale per questa morte solitaria e bizzarra con quel casco in testa che sembri un astronauta pronto per una passeggiata nello spazio, un po’ di disagio me lo ha dato. Poi sono comunista ed allora mi sono tremendamente incazzato al pensiero che anche questa volta avevamo ragione e che siamo stati inascoltati, avevamo ragione quando abbiamo fatto le nostre battaglie in difesa della sanità pubblica, contro la chiusura di tanti piccoli ospedali a cui, nonostante le promesse, non si è sostituita alcuna struttura territoriale. È successo anche qui in Toscana dove si era costruito il mito di una buona sanità.
G.: Secondo lei che cosa è cambiato,in questi 50 giorni, nell’opinione pubblica?
M.: C’è stato un profondo mutamento dentro quello che definiamo “il senso comune” della gente, ma una mutazione che è ancora in divenire e che ancora non si è risolta in un modo nuovo ed organico di vedere le cose e la politica, tutto può ancora prendere una direzione o quella opposta.
Alcune cose positive che ancora non sappiamo se dureranno, un po’ come l’immunità dei guariti, si è verificata a partire da una nuova declinazione del concetto di sicurezza. Sembra lontanissima la stagione in cui dilagava l’ossessione della criminalità e dell’immigrazione e si è indebolita la voce dei “cazzari” che hanno pontificato su tutto senza alcuna preparazione scientifica e senza alcun riscontro nella realtà. Sui dati snocciolati dalla protezione civile c’è molto da dire, sono stati costruiti dentro un apparato del tutto insufficiente, non solo ad affrontare, ma anche a leggere l’evoluzione del fenomeno, ma almeno fino ad ora nessuno è arrivato a parlare di mortalità “percepita”, a teorizzare cioè che la realtà non esiste ed è importante solo ciò che sembra o meglio quello che si mostra, un atteggiamento che fino alla istituzione della zona rossa di Codogno e di tutto il basso Lodigiano la faceva da padrone.
Insomma l’epidemia ha provocato il ritorno in scena della realtà.
G.: Lei ha fatto un cenno alla politica, che cosa pensa dei provvedimenti governativi e del ruolo dell’opposizione?
M.: Prima ancora che di un giudizio sui provvedimenti messi in atto c’è da registrare che governo ed opposizione hanno immediatamente percepito la potenza dell’epidemia nel costruire nuovi orientamenti di opinione e si sono gettati su una spasmodica ricerca del consenso tentando di azzeccare l’atteggiamento giusto. In questa condizione, senza un pensiero organico a cui riferirsi hanno alternato messaggi contrastanti del genere “apriamo tutto, chiudiamo tutto, chiudiamo ma teniamo aperto”. Con la stessa velocità si sono alternate spinte ad una attenuazione o ad una esasperazione del conflitto politico. Tutto ciò mentre i lavoratori, i disoccupati ed i pensionati, insomma le persone in carne ed ossa hanno sviluppato una insofferenza, se non una ostilità, crescente nei confronti dei rituali della politica.
Non si sono sentite voci, tranne pochissime eccezioni, che hanno messo in luce la vera questione.
G.: Quale questione?
M.: Che il vero problema è che il capitalismo ormai mostra la corda, che ci troviamo difronte ad un sistema a cui è stata attribuita la capacità di autoregolarsi e che invece produce disastri sotto il profilo sociale, sotto quello ambientale e sotto quello della qualità della convivenza democratica;che le politiche attuate nella nuova fase della globalizzazione neoliberista hanno distrutto ogni tutela sociale ed hanno indebolito drammaticamente la capacità dello stato di resistere ad una condizione di emergenza.
Guardiamo la sanità che ha spostato l’attenzione dalla salute pubblica verso gli interventi “di eccellenza” insomma sulle singole patologie. Curare era molto più utile e redditizio che non prevenire, così i privati hanno potuto colonizzare e stravolgere il sistema.
E’ successo in tutta Italia, anche da noi in Toscana attraverso un sistema meno spregiudicato che non in Lombardia, ma altrettanto devastante.
La dialettica tra questo governo e tra questa opposizione non è assolutamente in grado di far emergere queste verità ed anzi si impegna con cura ad occultarle.
G.: Quindi tutto facile per i comunisti che da sempre hanno sostenuto politiche diverse.
M.: Mi rifaccia la domanda! Per i comunisti non è mai stato facile. Figuriamoci ora che non abbiamo più rappresentanza istituzionale, non abbiamo più un giornale o un altro strumento di comunicazione, che non abbiamo nulla se non la forza delle nostre argomentazioni ed un corpo militante sempre più affetto da pluripatologie. Io per esempio ho l’asma, la pressione alta ed un paio di coglioni grossi così. E non è una espressione misogina, i coglioni così a cui mi riferisco, più grossi dei miei, ce l’hanno anche le donne che come sempre pagano il prezzo più salato. Il neoliberismo è maschio. La rivoluzione è femmina.
G.: Siamo ancora a sognare la rivoluzione?
M.: La rivoluzione non è un sogno, non è una fuga dalla realtà. La rivoluzione è una pratica quotidiana. Come vede non ho nessuna arma di offesa ma ormai è tanto che siamo tornati in montagna come i vecchi partigiani, quella montagna lì è anche al livello del mare. Oggi dobbiamo affinare la nostra capacità di comprendere e la nostra capacità di comunicare e diffondere le nostre idee. Siamo in trincea caro compagno giornalista. [in tono un po’ incazzato (ndr)]
G.: Va bene ritiro la domanda sulla rivoluzione, ma insomma che cosa intendete fare in concreto?
M.: Così va meglio! La domanda è più giusta, ma la risposta è più difficile. La dividerei in tre azioni in cui dobbiamo impegnarci: capire, proporre, mobilitare. E siamo indietro in tutte e tre non per errori ma sostanzialmente per limiti oggettivi. Anche un’intervista come questa può essere però parte di questo sforzo. Abbiamo bisogno urgente di una analisi che colga il mutamento sociale che sottende la nuova fase, abbiamo bisogno di discutere collettivamente i nuovi bisogni materiali ed esistenziali di una popolazione impaurita ma sempre più incazzata. Abbiamo bisogno di comprendere velocemente cosa può sostituire la retorica dell’autocelebrazione nazionale, dell’Italia modello per tutto il mondo, una retorica che si infrange contro i numeri (taroccati per difetto) della altissima percentuale di decessi.
Abbiamo bisogno di comprendere quale sia la reazione ad un insieme di provvedimenti che, pur perseguendo un comprensibile obbiettivo di distanziamento sociale, appaiono per la gran parte imperativi senza senso, più finalizzati ad affermare che lo stato c’è, che a produrre risultati sull’andamento dell’epidemia. Norme e repressioni per la gran parte incomprensibili e vessatorie che aprono il fronte di una difesa della Costituzione non solo attraverso la battaglia referendaria che ci attende. Occorre proporre l’immediato impegno di ricostruzione della medicina territoriale con provvedimenti che non siano solo transitori ed emergenziali. Occorre ridefinire i settori di spesa pubblica trasferendo i fondi delle spese militari e delle grandi opere verso i settori di interesse sociale. Occorre uscire dalla attuale politica finanziaria, il problema non è come indebitarsi, non c’è una grande differenza tra l’acquisto di titoli di stato italiani da parte della BCE ed il MES sanitario. Il problema è come ridistribuire a fondo perduto le risorse europee e come renderne disponibili di nuove anche a traverso una svalutazione monetaria. Occorre da subito svincolare tutte le somme delle linee di finanziamento europee assegnate e non ancora spese.
G.: Questo riguarda l’Europa, ma in Italia
M.: In Italia mettere mano da subito ad una nuova curva di aliquote IRPEF, introdurre una patrimoniale ed una ridefinizione della tassa di successione.
G.: Sono tutte ricette Keynesiane che non sono incompatibili con il capitalismo
M.: Questo dovrebbe dirlo a chi governa, ma accetto la critica.
In questa fase Keynes sembra un rivoluzionario. Sembra, ma non lo è.
Ci attendono momenti davvero duri in cui molti non avranno cosa mettere in tavola per se e per i figli e tutto ciò accadrà in presenza di un sistema produttivo fermo sebbene capace di produrre tutto per tutti.
E’ difronte a questa prospettiva che ridiventa attuale MARX molto più di Keines e che si ripropone in tutta la sua forza la questione comunista; che cosa si produce, come si produce, per chi si produce.
G.: Su questo terreno non la seguo.
M.: Certo la montagna non è per tutti.
G.: Rimanendo in pianura, che cosa pensate della spinta verso la riapertura?
M.: È evidente che dietro questa spinta alla riapertura ci sono grandi interessi. Per moliti padroni, l’unico servizio essenziale è quello di fare i quattrini. Ma ritengo che su questa questione si debba andare molto cauti, infatti non riguarda solo i “padroni”. Penso ai piccoli commercianti, agli ambulanti, agli artigiani, alle imprese familiari a tutti quelli che si sono affidati per amore o per forza al circuito dell’economia e che oggi sprofondano nella più totale insicurezza. Nei confronti di questi soggetti sociali dobbiamo lanciare ponti ed avanzare proposte che non li aggreghino al carro delle grandi imprese. Il lavoro autonomo in questo paese non è stata solo una libera scelta, ma in tantissimi casi una necessità. Credo sia necessario pensare ad una no tax area anche per gli autonomi trasferendo il prelievo dall’impresa alla ricchezza.
G.: La costruzione di un blocco sociale alla Gramsci?
M.: Magari ne fossimo capaci.
Siamo consapevoli dei nostri limiti e non possiamo offrire certezze salvo il fatto che non ci arrenderemo.
G.: La ringrazio, se non di altro, dello sforzo di sincerità, di questi tempi non è da tutti.