La sentenza di Karlsruhe come sintomo
Il significato del conflitto tra la Corte di Karlsruhe e la Corte di Giustizia Europea, che emerge dalla sentenza del 5 maggio, al di là delle molte annotazioni che si potrebbero fare sulla coerenza delle motivazioni giuridiche, è chiarissimo: la Germania si ritiene garante in ultima istanza dei trattati europei, del germanico nocciolo duro ordo-liberista che ne è carne e sangue e, su ciò, non riconosce altra autorità che sé stessa.
È del tutto ovvio che non è sul piano giuridico che il conflitto può trovare una soluzione, bensì solo nel ripensamento complessivo e radicale della logica di quei trattati. Trattati siglati meno di due anni dopo l’annessione della DDR alla BRD; tali eventi devono essere considerati in stretta connessione. Da allora si sono moltiplicati i sintomi di un aspetto profondo e di lungo periodo della storia tedesca.
Naturalmente quando si ha a che fare con strumenti analitici relativi alla storia profonda e di lunga durata, bisogna essere consapevoli della necessità di utilizzarli con molta prudenza, nella netta distinzione dei contesti in cui si manifesta tale continuità. Merkel e Schäuble non sono i «nipotini di Hitler», non sono gli esponenti di un Quarto Reich, ma sono comunque figli di una storia che ha attraversato anche il Terzo Reich.
Robert Musil nel 1923, nel contesto della riflessione collettiva caratterizzante l’intellighenzia weimariana a proposito dei rapporti tra la tradizione culturale specificamente tedesca ed i modi in cui la Germania era entrata in guerra, l’aveva vissuta, ne era uscita, scriveva un lungo saggio dal titolo: L’uomo tedesco come sintomo. La sentenza di Karlsruhe è certamente piccola cosa rispetto alla questione sollevata da Musil, ma è comunque anch’essa un sintomo dello stesso problema.
La I guerra mondiale, scrive Musil, è il luogo dove si manifesta il «quadro sintomatologico dell’«uomo tedesco», del suo rapporto con l’Europa. E Thomas Mann, nel Doctor Faustus, fa pronunciare queste parole a Serenus Zeitblom, la voce narrante: «Eravamo da troppo tempo, ormai, una grande potenza; (…). [Era] ormai giunto l’istante di un nuovo sfondamento: quello che ci avrebbe fatto diventare potenza mondiale dominante (…) Guerra, dunque, e se guerra doveva essere, che fosse contro tutti, così da convincerli e conquistarli (…). Il mondo avrebbe dovuto rinnovarsi nel segno dei tedeschi». Serenus, il nome non è casuale, non è un estremista ma un professore di filologia classica, moderato e ragionevole. Sempre non casualmente, si chiama Deutschlin (tedeschino) un altro personaggio del Doctor Faustus che esprime con nettezza l’eccezionalità dell’uomo tedesco: «Solamente noi tedeschi possediamo forma e profondità». Sereno e Tedeschino non avrebbero potuto essere tipi umani più diversi, ma la guerra rivela il «quadro sintomatologico» che li unisce.
Se le responsabilità della Germania nello scoppio della Grande guerra sono tutt’ora controverse, studi accurati hanno da tempo fatto luce sugli obbiettivi bellici tedeschi. Confrontando le carte geopolitiche del dominio diretto e dei diversi gradi d’influenza sui popoli d’Europa programmate dall’insieme di Stato maggiore e mondo industriale e finanziario, rimaniamo stupiti da quanto elevato sia il grado di approssimazione al quadro geopolitico al cui centro si trova la Germania di oggi. Frutto di una riuscita coniugazione tra la Kultur della tradizione e le caratteristiche assunte dal capitalismo del secondo Reich.
Il capitalismo tedesco del Kaiserreich è il più dinamico ed innovativo dei capitalismi europei. Il più avanzato nel processo di formazione di quel capitale finanziario che è il nocciolo duro dell’imperialismo. Il nazionalismo economico tedesco, dunque, è strutturalmente capitalismo espansionista a carattere dominante. Naturalmente il grado di dominanza delle aree di espansione è diverso a seconda dei contesti storico-geografici specifici in cui avviene, ma gli aspetti fondamentali sono caratterizzati da una lunga continuità. I medesimi gruppi industriali e bancari li attraversano in toto. Per quasi tutto il Novecento vediamo agire da protagonisti i proprietari, i personaggi di vertice dei conglomerati bancario-industriali. Breve la parentesi forzata nel post Norimberga. Paradigmatica la vicenda di Hjalmar Schacht, presidente della Reichsbank nella Repubblica di Weimar, ministro dell’ economia nel governo Hitler dal 2 agosto 1934, condannato nel 1947 a 8 anni di reclusione, assolto in appello nel 1948, e negli anni ’50-’60 consulente dei governi della BRD per la politica finanziaria tedesca all’estero.
Nessuna Europa tedesca è alle porte, l’Europa tedesca è già la nostra realtà. Naturalmente nei termini permessi dall’attuale congiuntura geopolitica. Un contesto in cui la dominanza si eprime attraverso la asimmetricità delle economie strette tra le maglie di trattati che favoriscono una progressiva divaricazione tra dominanti e dominati.
Un’inversione di tendenza è certo difficile, ma il punto di partenza non può che essere una duplice consapevolezza: a) non sarà il capitale italiano ad andare in direzione contraria alla logica di quei trattati; nell’Europa tedesca, che ha contribuito a costruire, ha trovato il suo spazio, subalterno, ma remunerativo; b) sul piano della cultura dobbiamo sempre ricordare ai molti Deutschlin che nell’età moderna «forma e profondità» nascono proprio da quell’ humus italiano in cui Pico della Mirandola ha trovato le condizioni migliori per scrivere il De hominis dignitate.