I want to ride my bicycle
L’introduzione del bonus bici fino ad un massimo di 500 euro (con una copertura massima del 60% del prezzo di acquisto) previsto nel Decreto Rilancio (art. 205) è sicuramente una misura da salutare con favore, in quanto rappresenta un piccolo passo di un lungo percorso obbligato per la salvaguardia della specie umana e quella del pianeta. In mezzo a tante incertezze, l’esplicito riferimento all’obiettivo di «ridurre le emissioni climalteranti» presente nel decreto conferma almeno la consapevolezza del problema da parte dell’attuale governo.
Ciò premesso, la misura poteva essere più coraggiosa e più saggia: rivolgerla solo a residenti maggiorenni abitanti nei centri con oltre 50mila abitanti rischia di far perdere in un solo colpo una duplice grande occasione: incoraggiare le giovani generazioni ad un uso più responsabile, sano e sicuro dei mezzi di locomozione (oltre all’inquinamento atmosferico e acustico, continua ad essere inquietante il bilancio delle giovani vittime in motorino) e invertire il processo di isolamento e depauperamento dei centri minori, i quali rappresentano una realtà decisiva per il futuro del paese.
A queste considerazioni va aggiunto il fatto che la misura è, ovviamente e soprattutto, un tentativo di rilancio di uno dei tanti settori di produzione e distribuzione del paese paralizzati dall’emergenza Covid19. Un settore, quello della produzione e vendita di biciclette, e di varianti il cui utilizzo è destinato a crescere a livello planetario –tra cui biciclette a pedalata assistita, biciclette pieghevoli, monopattini- sul quale una visione lungimirante imporrebbe di investire con maggiore decisione e continuità, e non solo con interventi una tantum.
Inoltre, affinché questa misura abbia ricadute davvero positive sulla collettività occorre, nel rispetto dell’autonomia e della specificità dei singoli Comuni, dar vita ad un piano nazionale di largo respiro, con investimenti adeguati per la sistemazione, la pianificazione e la costruzione di piste ciclabili. Cioè di percorsi che garantiscano un uso quotidiano e sicuro della bici nelle città, ad un ampliamento dei tragitti esistenti nelle zone extraurbane in cui il turismo su due ruote è già una realtà, e ad una loro reale diffusione in quelle (e sono tante!) potenzialmente in grado di diventarlo.
Tutto questo richiede e stimola un cambiamento culturale epocale –una vera rivoluzione nella quale i/le comunisti/e dovrebbero ritagliarsi un ruolo di primo piano- che ponga fine alla centralità assoluta dell’autovettura ad uso individuale, e a tutto ciò che comporta anche dal punto di vista simbolico e dell’immaginario.
A tal proposito, avete notato il numero enorme di spot che oggi reclamizzano le auto? E, salvo rare eccezioni, a quante insopportabili idiozie hanno il coraggio di esibire/pronunciare in quei pochi secondi ? E’ arrivato il momento di annoverare il ricorso parossistico all’uso dell’auto per spostamenti individuali come una delle peggiori “trovate” del capitalismo. Una diffusione capace in pochi decenni di ammorbare l’ambiente urbano, di congestionare i centri storici, di sfigurare le città e il loro patrimonio, di creare una moltitudine di persone che si alienano e si abbrutiscono quotidianamente dentro file fantozziane e in estenuanti ricerche di un parcheggio. A tal riguardo consiglio vivamente (o, forse, considero imprescindibile!) la lettura di “Vita e morte dell’automobile.
La mobilità che viene”, un saggio che possiede il doppio merito di essere ragionevolmente breve ma denso di intuizioni e di proposte, scritto da un esperto del calibro di Guido Viale più di dieci anni fa (nel 2007) ma ancora estremamente attuale. Il libro illustra infatti una serie di ragionevoli direzioni e interventi, nessuno risolutivo di per sé, ma insieme capaci di invertire una rotta che altrimenti porterà nel tempo sempre maggiori svantaggi a diversi paesi avanzati, tra cui l’Italia, (su questo non ci possono essere dubbi, a prescindere dal futuro eventuale successo delle auto elettriche).
Infine, l’infausta diffusione del Covid-19 ha evidenziato, tra le altre cose, il livello di irragionevole frenesia dei nostri spostamenti in auto. E il previsto ritorno alla “normalità” in forma necessariamente molto graduale per quanto riguarda i mezzi pubblici, rappresenta un test importante per la gestione del traffico nelle metropoli e nelle città di medie dimensioni (la misura sulle bici nasce ovviamente anche da questa comprensibile paura da parte del governo e delle amministrazioni locali). Questa emergenza deve dunque servirci come monito per il futuro, avendo rivelato quanto sia irresponsabile accettare una normalità già di per sé molto vicina alla paralisi, senza predisporre alcun ”piano B”, con il rischio che, sempre più frequentemente, per motivi diversi, si moltiplichino i luoghi e le situazioni di stallo totale.