La cultura di destra non è solo a destra.
La lezione di Furio Jesi. Intervista a Enrico Manera.
Enrico Manera, nato nel 1973 a Torino, dove vive e lavora. Insegna in un liceo e svolge attività di ricerca presso l’Istoreto: collabora con Doppiozero.com e con il Master in Public History della Fondazione Feltrinelli, Milano. I suoi studi vertono sulle teorie della mito e della memoria culturale in età contemporanea e sulle convergenze tra storia, antropologia e politica. Al pensiero di Furio Jesi, oggetto di una tesi di dottorato, ha dedicato un volume omonimo e monografico della rivista “Riga” 31, che raccoglie anche scritti antologici (con M. Belpoliti, Marcos y Marcos, 2010) e il testo di sintesi teorica Furio Jesi. Mito, violenza, memoria (Carocci, 2012).
D: Quando sentiamo parlare di cultura di destra, nel discorso politico o giornalistico, ci viene subito in mente il fascismo. Furio Jesi è forse l’autore che ha problematizzato di più questo concetto, andando alle sue radici. Cos’è dunque la cultura di destra?
R: Jesi era un militante della “nuova sinistra” con un marcato tratto operaista e un intellettuale, entrato non ancora quarantenne in università come germanista. Nel suo lavoro più noto, pubblicato nel 1979, “Cultura di destra” metteva in luce diversi aspetti della destra, a partire dalle sue diverse incarnazioni – tradizionale, fascista e neofascista –, con l’idea di individuarne aspetti profondi e diffusi: in modo particolare l’analisi di Jesi si concentra su cosa qualitativamente definisca la destra cercando i tratti di un modo di pensare e di essere, quindi individuando una cultura in senso antropologico più che una ideologia in senso stretto.
In modo simile a quanto Umberto Eco avrebbe scritto con l’idea di ‘fascismo eterno‘ nel 1995 sono diversi i tratti che caratterizzano un modello tipico del pensiero di destra: “una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni” tra cui il culto della tradizione, l’antimodernismo, l’elogio dell’azione e l’anti-intellettualismo, il sincretismo e l’appropriazione di temi altrui, il populismo e il nazionalismo, il bisogno di nemici, il vitalismo e l’elitismo, l’eroismo e il machismo, il gusto del potere e della violenza, il fascino per la morte…
Tanto Jesi quanto Eco hanno hanno forgiato i loro scritti nella controcultura d’avanguardia degli anni Settanta. Jesi presta molta attenzione alla genealogia e alla provenienza di lungo periodo della destra: il modo di pensare e interpretare il mondo da destra per lui, prima del fascismo che nasce come destra moderna e nazional-rivoluzionaria; deriva dalla cultura classica, umanistica e borghese che trascinatasi dai Lumi al Romanticismo si trasforma nel Novecento in relazione agli avvenimenti storici. È una matrice che si trasmette in modo non conscio e irriflesso soprattutto nel linguaggio e nell’immaginario, un aspetto a cui la semiotica negli anni Settanta aveva iniziato a dare molta importanza: parole e simboli infatti sono strumenti per fare cose e determinare azioni collettive.
La cultura di destra, inoltre, mostra accentuato carattere mitico: un ritualismo nel gesto eroico, nell’uso della violenza e nel rapporto con il potere; ma è anche uno specifico tipo di credenza che comporta un vero e proprio uso e consumo di mitologia nella prassi politica.
Per questo Jesi sosteneva che «la maggior parte del patrimonio culturale è residuo culturale di destra», con un concetto che può includere nell’appartenza a destra anche chi non pensa di esserlo e anche contenuti apparentemente di sinistra: il pensiero di destra è infatti sostanziato da un linguaggio fatto di parole-simbolo e simili a bandiere, che sono capaci di una presa emozionale sull’individuo e che neutralizzano la capacità di riflessione. Conta il come una cosa è detta e non solo il contenuto esplicito. Per questo ovunque si trovano “residui culturali di destra”: anche la cultura di sinistra più retorica, dinamitarda e celebrativa si trasforma in cultura di destra perché prende tratti acritici, monumentali e identitari, quelli che di solito si caratterizzano per le formule altisonanti e le parole “con la lettera maiuscola”. La loro funzione totemica è significare, a partire dalla loro enunciazione o dalla grafica, un di più di valore simbolico e capace di evocare “Verità” che si vogliono eterne, preziose, a tratti inziatiche: non è difficile oggi riconoscere in questo aspetti tipici del populismo e del complottismo per la semplificazione e il gusto del mistero e del suo svelamento. Un paradosso valido anche oggi se si pensa che il sentirsi speciali è desiderato come esperienza di massa e i più pensano di essere “fuori dal coro” e “dissidenti”, di essere “controcorrente” e non sottomessi a un presunto pensiero unico, proprio mentre mentre triturano cliché maggioritari e diffusi, in contesti ampiamente sovraesposti e amplificati a dismisura, ben oltre il loro valore.
Uno ruolo speciale per il rapporto con il mito lo assume l’idea di tempo: la cultura di destra infatti «tecnicizza» il passato, ne manipola in modo strumentale determinate immagini trasformandole in finzioni di grande fascino e presa su individui e gruppi per farne strumenti religiosi di mobilitazione e azione. Jesi parla di una «cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile»; o ancora «una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari», «una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire». È evidente in questo passaggio che ogni governo autoritario, con una visione mitica della storia o della scienza, saperi e regole dogmatiche e quindi anche le esperienze di ‘socialismo reale’ sono per lui diverse forme di essere di destra.
Nel discorso sulla cultura di destra e in generale sul lavoro di Jesi ritroviamo spesso il concetto di materiale mitologico. Come facciamo a distinguere fra materiali “buoni” e “cattivi”? In altre parole: esistono materiali mitologici che è corretto usare senza entrare nelle dinamiche della cultura di destra?
Jesi sposta l’attenzione dal mito, concepito come una sostanza, all’idea dei materiali mitologici, cioè forme testuali, verbali, icone, comportamenti, stili che presentano tratti mitici, cioè provocano nella loro ricezione un effetto di miticità che ricopre chi ne è portatore. A partire dagli anni Settanta Jesi parla sempre di «materiali mitologici», di cui rintraccia la presenza in vari ambiti della letteratura e della politica (è anche infatti il titolo di uno dei suoi libri più belli del 1979 per Einaudi), come il risultato di un dispositivo socioculturale, la macchina mitologica, che produce appartenenze individuali e collettive.
Non esistono materiali o contenuti di una comunicazione dotata di senso, artistica e politica, completamente demitizzati, cioè esenti dal tratto di valore che la dimensione mitica, l’aura di significato, porta con sé: il vivente comporta sempre un grado minimo di investimento di senso; ci sono, al contrario, gradi di ideologizzazione e tecnicizzazione molto elevata, come la propaganda totalitaria, che implicano falsificazioni, strumentalizzazioni e decostestualizzazioni di un determinato contenuto che può ritrovarsi in una diversa cornice di senso e completamente autoreferenziale: il riferimento del fascismo alla romanità imperiale, la storia razziale del mondo fatta dai nazisti , ma anche il paradiso dei lavoratori stalinista e la disneyficazione del mondo ne sono esempi a loro volta molto diversi ma simili dal punto di vista strutturale di una teoria della cultura, che non a caso tiene conto della dimensione visuale e teatrale e della pratiche sociali indotte dell’alto.
Il criterio per distinguere nei materiali culturali il “buono” ritengo sia la capacità che un testo o un contenuto ha di mostrare il proprio tratto umano, storico, artificiale, fallibile, incerto e costruito: un mito d’arte che dichiara ed espone la sua natura imperfetta e il cantiere da cui è sorto; mentre il materiale ”cattivo” o “tossico” espone la sua natura sovrumana, si presenta come un pezzo di natura e si colloca quindi in una sfera di intangibilità: può essere solo adorato o rigettato in blocco come si fa con un idolo.
Recentemente uno storico come Enzo Traverso ha messo in luce la trasformazione della figura dell’intellettuale. Jesi ha sempre affiancato la sua attività di studio con un senso di militanza che non era mai altro dal lavoro. Come giudichi questo aspetto di Jesi anche in relazione a intellettuali contemporanei?
Abbiamo visto come la destra sia in Jesi una categoria ampia che può includere gran parte della sinistra ufficiale: non dimentichiamo che il suo punto di riferimento è la sinistra extraparlamentare italiana radicata nei movimenti, dalle grandi manifestazioni del 1969 fino alle occupazioni universitarie del 1977. Jesi è scomparso tragicamente e improvvisamente a soli 39 anni nell’estate del 1980, prima della strage di Bologna e della Marcia dei Quarantamila, per intenderci.
Questa idea di destra come mito, stile e retorica ci aiuta a mettere in discussione l’idea, per nulla convincente, di una trascorsa egemonia culturale della sinistra: la vera questione è capire quanto sia semplificata e caricaturale l’immagine degli intellettuali “di sinistra”, con una provenienza borghese e una cultura alta e di classe, capaci di intessere rapporti con l’industria culturale e centri di potere, anche se alternativi a quelli istituzionali più conservatori. Non mi piacciono le confuse fesserie che la destra populista diffonde sui presunti ‘radical-chic’ di oggi. Ma già in tempo reale negli anni Settanta bisognava fare maggiormente i conti con la messa a fuoco delle contraddizioni interne ai movimenti e, culturalmente, evitare pose, appartenenze e adozioni di stili culturali, contrapponendo la lucida consapevolezza della riproduzione socioculturale delle diseguaglianza e dei relativi concetti di habitus e capitale sociale e culturale. La sociologia di Bourdieu e il suo aspetto militante trova la sua forza proprio nella capacità dell’auto-socio analisi e di inserire la propria autobiografia nella critica al sistema, così come la lucidità di Jesi è anche quella di mettere in discussione tutte le macchine mitologiche: e quindi non solo quelle altrui ma anche la propria.
Jesi, che provenendo da una classe agiata e da una cultura classica sofisticata ed erudita ha messo in discussione la sua stessa tradizione familiare, apparteneva a quella generazioni di militanti e intellettuali che rifiutano il potere istituzionale e diffidano anche delle loro stesse istituzioni, come l’università in quanto luogo di corruzione morale ad esempio. Per dirla con il Fortini delle Questioni di frontiera a cui Jesi mi pare molto vicino: «nessuno è così ingenuo da credere che ci sia davvero una “cultura proletaria” o “rivoluzionaria”; ma questo non significa che accettare di riconoscere i fondamenti capitalistico-borghesi tanto della condizione intellettuale quanto degli strumenti e delle categorie con le quali l’intellettuale oggi lavora equivalga condannarsi al riformismo e alla mistificazione. È un lavoro di talpa quello che oggi si propone agli intellettuali rivoluzionari in un paese come l’Italia: nientemeno che l’ipotesi di un uso integrale degli strumenti di informazione e di comunicazione della società presente, dalle televisioni al ciclostile, dalla cattedra universitaria alla poesia».
Da questo punto di vista Jesi è stato attivissimo come sindacalista e come osservatore di dinamiche sindacali per “Resistenza giustizia e libertà”, molto attento ai sindacati autonomi nell’autunno caldo; ha lavorato nell’Università in cui ha lasciato un segno importante tra gli studenti nonostante il breve magistero (a Palermo e Genova), ma soprattutto, da free lance e con ritmi febbrili nell’industria culturale, per un gran numero di traduzioni letterarie (Mann, Rilke, Canetti, Kraus), voci di dizionari di storia delle religioni e filosofia e ovviamente saggistica, l’ambito in cui ha lasciato il segno più duraturo. Nel 1979, in relazione a Cultura di destra diviene una figura pubblica, ha visibilità: si prende gli strali della destra (che non lo comprende proprio per la complessità ma lo odia per riflesso istintivo) ma anche la diffidenza di molta sinistra culturale che non lo capisce fino in fondo o lo interpreta, sbagliando, come uno Zolla di sinistra o uno stravagante dalle passioni esoteriche che si occupa bizzarrie nella storia delle idee.
Sul contemporaneo, è difficile dire: molti intellettuali non hanno un ruolo pubblico e non vogliono essere visibili né possono essere comprensibili ai più, ma scrivono e vengono letti solo dagli addetti ai lavori; un sistema diffuso ha piuttosto fatto crescere un mito dell’intellettuale, posizione a cui molti aspirano: a seconda delle generazioni figure molto note vivono di rendita, in virtù di meriti indubbi e grandi opere del passato, e si prendono il ruolo che l’industria culturale gli ha riservato, riproducendo uno status da maestro di sapienza che Jesi, a mio avviso, non avrebbe esitato a giudicare “cultura di destra” e “lusso intellettuale”. Altri miti sono veri e propri fenomeni, oggetto di ammirazione o riprovazione creati dal web, e credo possano essere considerati intellettuali da chi non ha consapevolezza di cosa significhi esserlo e ha bisogno di vederlo scritto sotto la faccia che compare nello schermo del pc, insieme alla descrizione del fatto che avrebbe “asfaltato” o “demolito” qualcun altro in un dibattito.
Entrando in contatto con la figura di Furio Jesi mi meraviglio sempre della sproporzione che si percepisce fra l’importanza di questo autore e la fetta di società (anche militante) che se ne occupa. Esistono cioè autori e intellettuali che meriterebbero ben più spazio fra i nostri scaffali e soprattutto nelle nostre discussioni critiche, mi viene in mente ad esempio Raniero Panzieri. Perchè Jesi è ancora appannaggio di una nicchia?
A mio avviso Jesi è molto citato e poco letto. Della sua vasta produzione, fatta di moltissimi saggi rispetto ai volumi, si conoscono fin troppe poche cose. In più la presenza dei suoi lavori nelle biblioteche di autori importanti gli ha dato l’aura del genio precoce da riscoprire e da citare a ogni costo, talvolta non sempre a proposito.
La prima risposta è dunque molto secca: Jesi è magnetico e suggestivo, ma è molto difficile da leggere, richiede attenzione, pazienza e ritorni successivi: non è un autore che si legga facilmente senza contesto e pre-requisiti, la sua produzione non ha uniformità e alcuni lavori, soprattutto i primi, risentono di uno stile ellittico e non privo di aporie che li rendono ardui da scalare; altri della fase matura, a mio avviso dal 1975 in poi, risultano felicemente risolti e godibili, oltre che più comprensibili. Lo dico con un enorme rispetto avendoci lavorato sistematicamente per anni e conoscendo i contesti della loro elaborazione. Ma resta il punto che i testi di Jesi circoscrivono problemi e rendono impossibili facili soluzioni: se uno cerca risposte di ordine politico deve accettare la difficoltà di attraversare Mann e Brecht per comprendere Luxemburg e Lenin, oppure scavare in Kraus e Canetti per ritrovare Marx, o passare per Rilke, Heidegger e Eliade per comprendere Mussolini, Hitler e Codreanu. In ogni caso non viene fatto nessuno sconto al lettore, che dovrà cercare altrove i riferimenti che al momento gli mancano.
Tutto il discorso sulla macchina mitologica di Jesi è soprattutto la costruzione delle precauzioni necessarie per non cadere nell’illusione di poter risolvere la questione del mito in breve e prelude a una metodologia complessa da applicare caso per caso, rifuggendo da ogni sistemazione teorica che non sia provvisoria e temporanea, passibile di essere sostituita da altro.
Il punto centrale è che come i testi politici spingono la propria parte, la sinistra, a mettersi in discussione, ogni altro lavoro teorico fotografa il farsi il pensiero nella sua mobilità e spinge a ritenere che il proprio lavoro e la propria attività non si possa mai dire risolti o conclusi.
Qual è dunque l’attualità del pensiero di Jesi e con quali strumenti oggi possiamo codificare fenomeni come Trump, Bannon, per certi versi Putin, la destra sovranista europea? Forse la mancanza di uno studio organico sulla cultura di destra post “grande balzo all’indietro” è un ulteriore elemento di freno per una sinistra d’alternativa.
Senza dubbio Jesi è attualissimo e fornisce strumenti utili per l’oggi: la sua analisi della capacità di sintesi delle destre rispecchia quello che la destra post-moderna ha realizzato nell’ultimo decennio, che si tratti dell’alt-right americana o del populismo del politicamente scorretto o dell’autoritarismo sovranista. Un altro esempio è lo svelamento di un populismo di sinistra, che ha curvato pulsioni socialiste in senso nazionalista che lo trasformano in una destra, e che trova ulteriore sviluppo in un fenomeno come il rosso-brunismo, che viene dalla destra metafisica, persino razzista, e pensa comunità geopolitiche solidali basate sull’esclusione di altri. Per anni temo si siano scambiati per sinistra cose che non lo sono in base ai criteri che abbiamo detto.
Poi c’è un tratto diffuso che riguarda il presente: l’immediatezza, la disintermediazione, l’autenticità esibita, la pomposità, la trivialità, la semplificazione, la rigidità, la fanatizzazione e il kitsch nella destra contemporanea sono portate all’estremo e si ritrovano in modo esplicito nelle culture post-fasciste e autoritario-populiste. Gli stereotipi nazionalisti, antisemiti, xenofobi, l’immaginario demonizzante e criminalizzante sui migranti sono oggi in Europa immagini semplificate della realtà, sono miti identitari che danno risposte facili alle crisi. La mediasfera contemporanea è piena di storie a sfondo complottista, come nel caso delle “ONG tassiste del mare», gli “eurocrati”, le femministe e il gender e tutti gli altri che sarebbero al soldo del “finanziere ebreo” di turno. Se posso permettermi rimando a questo specifico argomento qui.
Un altro tema attuale è il sospetto verso la scienza e la tecnica, che la crisi del Covid ha mostrato in modo chiaro: la controcultura di sinistra degli anni Settanta ha insegnato un giusto sospetto verso il potere della grande industria, ma contemporaneamente ha finito per avallare approcci irrazionalistici che oggi colpiscono la credibilità della scienza mentre l’obiettivo doveva essere la critica della strumentalizzazione economica della tecnica. È questo un tema su cui la cultura di sinistra di ieri ha fornito strumentario e argomenti alla destra di oggi, e non a caso il tasso di sottovalutazione degli effetti del Covid in vari paesi è correlabile ai livelli di populismo. Ed è il motivo per cui posizioni di una critica, anche di sinistra, verso la “tecnica” oggi si ritrovano antimoderne e incapaci di cogliere trasformazioni e opportunità di realtà più complesse come il digitale.
Ma su tutto vorrei riprendere il tema attualissimo della critica come auto-critica e in particolare un lucido commento fatto recentemente da Pierluigi Lanfranchi, un grecista e studioso di Jesi, secondo cui la lezione politica che possiamo prendere da lui oggi sta proprio nella sua anticonvenzionalità, dell’antiretorica, nell’antiaccademismo, nell’invito a non farsi incantare dai miti prodotti da macchine mitologiche che si sentono più vicine, si presumono buone e si sentono proprie. In questo Jesi è davvero in linea con la traduzione dei “maestri del sospetto” ed un esempio di ogni rivoluzione che non può che iniziare a casa, la mattina davanti allo specchio del bagno.